Elettroshock è il modo comune con cui viene chiamata quella che in realtà è la terapia elettroconvulsivante o TEC. Se forse solo gli addetti ai lavori conoscono il nome tecnico, tutti sanno, anche per celebri fim come "Qualcuno volò sul nido del cuculo", di cosa si tratta: una scarica elettrica somministrata tramite elettrodi applicati alla testa, che produce crisi convulsive simili a quanto avviene nell’epilessia. L'elettroshock è stato inventato da due psichiatri italiani, Bini e Cerletti, nel 1938. Le motivazioni che avevano indotto all’uso di questa tecnica si sono dimostrate in seguito del tutto infondate: infatti si credeva che le persone epilettiche non potessero manifestare i sintomi della schizofrenia. Da circa un secolo è la terapia più contestata.
Il genio surrealista francese Antonin Artaud, l’11 febbraio 1943 giunge a Rodez, dove, racconta che subì 51 elettroshock.
"durante uno dei quali sono stato dichiarato clinicamente morto e poi risuscitato e rigettato nel terrore del trattamento psicoanalitico- scrive- Dal più profondo della mia vita io continuo a fuggire la psico-analisi, la fuggirò sempre come fuggirò qualunque tentativo per imprigionare la mia coscienza in precetti o formule […].
La terapia elettroconvulsivante gli provoca la caduta di tutti i denti, la cura psichiatrica è per lui una tortura alla quale si ribella e scrive lettere di supplica e di denuncia al direttore, il dottor Ferdière.
Ci sono psichiatri che continuano a usare sistematicamente questo metodo. Secondo chi vi si oppone, i risultati sono transitori e non superiori a quelli ottenuti con altri mezzi terapeutici, mentre sono tuttora frequenti gli effetti collaterali, come la perdita di memoria e la confusione mentale.
Chi la difende sostiene che ormai le cose sono cambiate e che non viene più effettuata come prima della legge Basaglia, quando veniva praticata senza utilizzare precauzioni per evitare traumi e danni collaterali al paziente, le indicazioni diagnostiche erano spesso inappropriate, veniva calpestata la dignità della persona che spesso subiva l’elettroshock senza poter esprimere il proprio consenso, la scarica elettrica poteva assumere caratteristiche punitive o comunque di abuso.
Da questa tragica storia di soprusi, viene fuori l'immagine attuale, perchè la Tec resta il simbolo di una psichiatria oppressiva, che non rispettava la persona con disturbi mentali. Sempre secondo chi la critica, gli psichiatri dovrebbero ricercare altre terapie più lunghe, complesse e costose, ma più efficaci e durature. Secondo questa interpretazione, l'elettroshock è figlio di un'idea quasi "magica" di cura della persona con disturbi mentali, come se si potesse in poco tempo "guarire" senza investire in terapie prolungate nel tempo. I principali disturbi che vengono curati con la terapia elettroconvulsivante sono la depressione grave, la catatonia quando si manifesta con arresti psicomotori, la psicosi puerperale nella pericolosità di suicidio della madre o omicidio del bambino. La Tec andrebbe proposta come ultima ratio, solo quando diverse terapie farmacologiche si sono dimostrate inefficaci, ma spesso non è così.
Nella sezione dei casi giornalistici diamo conto di questo confronto, con l'alternarsi di articoli che esaltano o demonizzano l'elettroshock.
Piano legislativo. Tra le varie norme emerge che il paziente il quale intenda sottoporsi a un ciclo di Tec deve sottoscrivere un documento di consenso informato, in cui vengono descritte le motivazioni che hanno portato a richiedere la cura, il suo svolgimento e le possibili complicazioni. Un secondo consenso va dato all’anestesista della clinica in cui si effettua il trattamento. In casi di demenza del paziente o evidente stato confusionale entrano in gioco i legali rappresentanti (se la persona è sottoposta a tutela), o un giudice del tribunale che assegna un tutore temporaneo. Una volta si chiedeva il consenso ai parenti, ma questa procedura è stata modificata a maggior tutela dei pazienti.
Qualora il paziente «non fosse in grado di esprimere liberamente il suo consenso», la Tec può essere praticata – dietro assenso del tutore – in regime di trattamento sanitario obbligatorio (Tso).
Elettroshock, l'ho visto fare e vi dico: guarisce
Le tempie fremono. Dopo pochi minuti, una frase:"Ora sto bene". Il primo esperimento nel 1938: da allora decenni di pregiudizi contro la cura
(edizione online di un quotidiano nazionale, 24 febbraio 2008)
[...]Comunque, ora, sono qui. Confesso: impaurito ed emozionato. Eppure maledettamente curioso di sfidare un falso mito fatto di leggende drammatiche, terrificanti e, allo stesso tempo, una serie di luoghi comuni imbottiti come panini di ideologie. Da Basaglia fino ai gulag, nel mezzo migliaia di parole inutili. Ma ora sono qui, infiltrato in una sala dove intorno a un letto un’équipe di psichiatri, anestesisti e tecnici si sta preparando a salvare un omone di una cinquantina d’anni che da troppo soffre di una forte depressione che alcun tipo di farmaco è riuscito mai a guarire. È davanti a me, lo sguardo perso, quasi incurante di quanto gli sta accadendo attorno. Sono anni che vive il suo male: condannato al dolore, all’apatia e alla solitudine. Ma soprattutto all’autodistruzione. [...]
Voglio vedere che cos’è veramente l’elettroshock. Per tentare di decifrare qual è la verità e dove comincia la leggenda, infarcita di racconti terrificanti, dove si spinge la medicina o se davvero quella è la stanza degli orrori che sciocche ideologie e, di conseguenza, pellicole impressionanti ci hanno raccontato con le loro immagini. Chi non ricorda le sequenze terrificanti e coinvolgenti del film «Qualcuno volò sul nido del cuculo» e l’espressione ebete di Jack Nicholson folgorato da una scarica al cervello? E chi non ha mai sentito raccontare i primi esperimenti scientifici all’inizio del secolo scorso, con i pazienti legati da cinghie di cuoio alle barelle e le gambe e le braccia che si fratturavano strapazzate dalle scosse elettriche? [...]
Già, ma ora sono qui dentro, in questa stanza. Ora ho davanti a me quell’omone disperato che dorme assistito dall’anestesista, i monitor che lanciano i loro segnali su freddi schermi verdi e una psichiatra pronta con gli elettrodi tra le mani. Eccolo, l’elettroshock. Una scossa alle tempie, tre secondi esatti scanditi da un cronometro. Sul volto del paziente solo una smorfia. E la sua mano destra, imbrigliata da legacci di gomma, che inizia a tremare. Un fremito forte. Mi impressiona. Ma subito mi spiegano che è quello il segnale, l’elettroshock sta facendo il proprio lavoro, ha effetto: più lunga sarà la reazione, più efficace sarà stata la terapia. E gli psichiatri accompagnano i secondi che passano – un count down da Cape Canaveral - scandendo il tempo senza nascondere la propria soddisfazione: trentacinque, trentasette, dai ancora – pare implorare, la psichiatra -, trentanove. Quaranta! È il piccolo gridolino che segnala l’ottimo esito dell’intervento. La mano del paziente ora non trema più. Le dita si rilassano lentamente. È già tutto finito, una manciata di minuti. E anche l’anestesia comincia ad esaurire il proprio effetto. Qualche domanda, lo chiamano per nome, pian pianino risponde, si sta riprendendo. E la prima frase che dice, mi commuove: «Sto bene». [...]
E mentre mi sfilo un camice che per nulla mi appartiene, e passeggio nel lungo corridoio, silenzioso, ovattato della clinica, mi chiedo perché c’è ancora chi si batte contro l’elettroshock e agita questa terapia scientifica, che dà risultati provati e clinicamente indiscutibili, come un mostro da abbattere, come un nemico da sconfiggere. Certo, come sempre, nelle critiche c’è del vero. Ma le accuse in questo caso sono anacronistiche: come se il tempo si fosse fermato al primo esperimento, datato 1938, pioniere il professor Cerletti, che la inventò, quando l’anestesia ancora non era in grado di supportare e «annullare» la potenza di quella scossa elettrica da 220 volt. Una tortura, allora, pur se fatta a fin di bene. Ma, ora, 2008, l’elettroshock è l’ultimo rimedio al male del secolo: la depressione. Una terapia senza rischi che entra in scena solo quando la chimica s’arrende, non dà risultati. Solo in Italia, dicono le statistiche, ne soffrono dieci italiani ogni mille. Percentuali sommarie perché, purtroppo, molti di quelli che ne sono affetti s’affidano all’impreparazione di molti medici di base. Altri, disgraziatamente, si lanciano con l’automobile fuori strada, oppure direttamente dal balcone. Quando, addirittura, in un gesto per noi di inspiegabile affetto, sterminano la famiglia prima di togliersi la vita. E davanti a questo c’è ancora chi non ha capito che cosa sia la depressione. E non accetta che quando la farmacologia non riesce a guarire rimane la disperata frontiera dell’elettroshock. Una parola che potrà anche far paura, ma che vuole dire salvezza, vuole dire vita.
Elettroshock, “ancora praticato in 91 strutture come terapia primaria”
I risultati emergono dalla relazione presentata in Senato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino. Dal 2008 al 2010, sono 1400 le persone sottoposte a “Tec”, terapia elettro convulsivante. “Non abbiamo giudicato il merito,però ci siamo resi conto di situazioni in cui la tec viene utilizzata subito senza passare da previa valutazione farmacologica”
(edizione online di un quotidiano nazionale, 12 febbraio 2013)
L’elettroshock è ancora largamente praticato in Italia. Ad affermarlo è la Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, durante la presentazione in Senato della relazione finale. A ricorrere all’elettroshock sono “91 strutture ospedaliere” dell’intero territorio nazionale, “14 solo in Sicilia”, ha rivelato Marino. Dal 2008 al 2010, il triennio preso in esame dalla Commissione d’inchiesta, sono state 1400 le persone sottoposte a “Tec”, terapia elettro convulsivante, la maniera più articolata in cui viene chiamata oggi la pratica di applicare elettrodi in testa. Sulla base delle indicazioni del ministero della Salute, la Commissione ha reso note le strutture ospedaliere sia pubbliche che private che ne fanno uso. Colpiscono, in particolare, i dati dell’Ospedale civile di Montichiari, in provincia di Brescia (108 trattamenti nel 2008, 155 nel 2009 e 158 nel 2010), quelli dell’Azienda ospedaliero-universitaria e Policlinico di Pisa (106 Tec nel 2008 e 89 e 68 nei due anni successivi), quelli del Polo ospedaliero San Martino di Oristano, dove nel 2008 si è ricorso 105 volte alla Tec, mentre 48 e 42 sono stati i casi nel biennio successivo. “Non abbiamo voluto dare un giudizio sul merito e sulla appropriatezza della terapia – ha aggiunto il presidente Marino – però ci siamo resi conto di situazioni, viste personalmente, in cui l’elettroshock viene utilizzato come terapia di prima linea”. Secondo la Commissione, dunque, il paziente non passa attraverso le preliminari e regolamentate terapie psicofarmacologiche ma direttamente attraverso l’elettroshock. “E’ una pratica sbagliata e da correggere – ha affermato Marino – tutti i componenti la Commissione sono rimasti sorpresi”. Preso a prestito dai mattatoi romani dove era utilizzato sul finire degli anni ’30 per stordire i maiali, le risultanze della Commissione parlamentare d’inchiesta rappresentano come l’uso (e l’abuso) dell’elettroshock non sia scomparso né tantomeno residuale, nonostante la celebre riforma di Franco Basaglia. [...]
A quanti sostenevano la “bontà” degli elettrodi, Basaglia era solito rispondere: “E’ come dare una botta ad una radio rotta: una volta su dieci riprende a funzionare. Nove volte su dieci si ottengono danni peggiori. Ma anche in quella singola volta in cui la radio si aggiusta non sappiamo il perché”. Nel luglio scorso, le parlamentari Delia Murer, Luisa Bossa e Maria Antonietta Farina Coscioni hanno indirizzato un’interrogazione al ministro della Salute Renato Balduzzi, esprimendo forti riserve sulla “pratica di spegnimento” come viene definito l’elettroshock dai medici di “Psichiatria democratica”, il movimento fondato dallo stesso Basaglia. Una pratica molto controversa: “un trattamento, non una terapia – dicono – approssimativo, ascientifico, empirico, utilizzato ideologicamente per far credere in una pronta risoluzione dei sintomi”. Tesi confermate dal Comitato nazionale per la bioetica nel 1995 – “la psichiatria dispone di ben altri mezzi per alleviare la sofferenza mentale” – , da studi pubblicati nel 2005 sulla prestigiosa British Medical Journal e dalla più recente letteratura scientifica. I professori Richard Bentall e Jhon Read ritengono la “Tec” inutile, se non perfino dannosa, specie per la memoria. In tema di salute mentale, esistono in Italia stringenti linee guida che limitano e regolano l’elettroshock. La circolare 15 febbraio nel 1999, a firma dell’allora ministro della Sanità Rosy Bindi, ha stabilito che si debba far ricorso alla Tec solo a seguito di ripetute terapie psicofarmacologiche. Nello specifico, la circolare prevede (al punto 5) il monitoraggio, la sorveglianza e la valutazione delle applicazioni terapeutiche, che si devono tradurre nel ricorso alla peer rewiev (revisione tra professionisti alla pari) e ad una Commissione di medici esterni alla struttura specialistica dove venga effettuato “il trattamento”. La Tec “non costituisce un presidio terapeutico a se stante, ma deve necessariamente essere considerata all’interno di un programma terapeutico personalizzato, integrato con altri interventi”, recita ancora la circolare. Le valutazioni cliniche sul paziente devono quanto meno precedere, accompagnare e seguire ogni seduta. A parere di Marino, “la questione deve essere affrontata a livello di governo con cogenti modalità d’uso”.
Italo Cucci, il dramma della sua famiglia tra leucemia, depressione ed elettroshock
In un libro, la struggente storia del giornalista: la perdita di una figlia e i demoni (sconfitti) del secondogenito
(edizione online di un quotidiano nazionale, 16 febbraio 2014)
Quanti di noi sono cresciuti con i commenti a caldo a fine partite di Italo Cucci, giornalista e già direttore di diversi quotidiani. [...] Ma forse in pochi sanno che dietro il pacato e calmo Italo, quel viso da papà buono, si nasconde la sofferenza e la struggente storia di una famiglia più volte straziata dal dolore. Disperazione ma anche coraggio, questi gli elementi alla base di Elettroshock, il libro edito da Minerva Edizioni, in cui Italo e il figlio Ignazio raccontano la loro storia. L'incubo - Si parte dalla disperazione per la morte della prima figlia di Italo, portata via dalla leucemia a soli tredici anni. Quindi la storia del secondo figlio, Ignazio, colpito dal più oscuro e intricato dei mali: la depressione. Una malattia che è riuscito a sconfiggere tramite la terapia elettrica, tramite quell'elettroshock che dà il titolo al libro. Un volume in cui viene narrata l'odissea di una famiglia. Nel 1979 la scomparsa di Francesca. Poi nel 1981 nasce Ignazio, anche lui toccato dalla cattiva sorte. Fin da giovane soffre di depressione, ed esplora in prima persona tutti i punti più oscuri di una malattia-non-malattia in grado di rubarti la vita. L'incontro - Ignazio, il "depresso", viene esiliato dagli amici. Poi viene scaricato dalla ragazza tanto amata. Iniziano le cure, un percorso doloroso. Dagli ospedali alle pillole, i pareri dei medici, quelle voci che Ignazio sentiva nella sua testa, la firma di quella belva implacabile che i dottori chiamano "esaurimento nervoso". Poi la svolta. Ignazio e papà Italo incontrano nel 2006 il professor Giovanni Battista Cassano dell’Università di Pisa, psichiatra di fama mondiale, sostenitore della terapia elettro-convulsivante, dell'elettroshock, appunto. Vita nuova - Ignazio decide di sottoporsi alle scariche elettriche. Una scelta soffferta. Ma la cura funziona, gli restituisce se non la salute totale almeno un'esistenza dignitosa, decorosa, un poco più serena. La belva della depressione si placa, anche se resta sempre in agguato. Ignazio sa che non se ne va mai via davvero. Quelle scosse, però rappresentano il segno di una nuova vita, caratterizzata da azioni che prima non riusciva più a fare. Oggi si trova a Pantelleria, fa il bibliotecario e gioca a calcio con dei nuovi amici. Coltiva una piccola porzione di terra e, ogni giorno, manda una mail a suo padre, che ogni giorno gli risponde. I due, ora, riescono a "vivere una vita".
Clara e sua madre, due donne nell’inferno dell’elettroshock
La giornalista del Tg2 Luciana Capretti ricostruisce in “Tevere” (Marsilio) una storia vera, che inizia con un caso di scomparsa a Roma nel 1975
(edizione online di un quotidiano locale,17 aprile 2014)
Una scarica elettrica attraverso il cervello. Le ustioni, il mal di testa lancinante per giorni, poi l’incapacità di governare mani e piedi, la bava, l’ottundimento. Clara era stata sottoposta per la prima volta all’elettroshock nel reparto neurologico del Policlinico di Roma, dove un luminare, in odor di Nobel, aveva sperimentato sull’uomo la pratica di annientamento della coscienza utilizzata al mattatoio del Testaccio per i maiali, prima di ucciderli. Quella volta, Clara era stata ricoverata d’urgenza dopo aver tentato di buttarsi dalla finestra con la figlioletta neonata in braccio. Anni dopo, fallito un altro tentativo di ammazzarsi con whisky e psicofarmaci, urlò con tutta la sua forza contro la seconda somministrazione della cosiddetta “terapia biologica”, questa volta in una clinica privata: «Infermiera la prego, glielo dica lei al medico che l’elettroshock l’ho già provato, non funziona, su di me non funziona, glielo dica... Fatemi la cura del sonno, fatemi dormire, ma l’elettroshock no!». Terapia biologica, farmacologica, timolettica: la depressione di Clara, quella voragine di angoscia e buio in cui era precipitata la sua vita, non passò nemmeno allora, dopo un altro ciclo di scariche. Anche sua madre Egle aveva conosciuto lo stesso trattamento, molti anni prima nel manicomio provinciale di Novara, dove con l’elettricità venivano curati vari tipi di matti, da quelli che marcivano legati al letto a quelli che dissentivano dalla politica del Duce. Egle, impazzita per la perdita della secondogenita, dalla terapia aveva ricavato una sorta di automazione inoffensiva, di sorda assenza, e a se stessa, a differenza della figlia, non aveva mai fatto del male. Clara è una signora della buona borghesia romana, sottoposta all’elettroshock negli anni Settanta: nessuno riuscirà a strapparla alla sua volontà di autodistruzione. La madre Egle subisce la stessa cura nell’estate 1940, affondando lo stress post-traumatico in una perenne catatonia. Due donne, due destini e una storia che parte da lontano per arrivare ai giorni nostri. La racconta Luciana Capretti, giornalista del Tg2, nel suo secondo romanzo, “Tevere” (Marsilio, pagg. 220, euro 17,50), nato da un fatto di cronaca. [...]
La provocazione terapeutica chiamata elettroshock
Pratica barbara per alcuni, antidepressivo formidabile per altri
Oggi si riapre il dibattito
(testata online nazionale)
E' la più controversa delle terapie psichiatriche e torna ciclicamente ad occupare le prime pagine dei giornali, suscitando ogni volta polemiche roventi. Stiamo parlando dell'elettroshock, o, per usare il gergo medico, la terapia elettroconvulsivante, al centro, in questi giorni, dell'ennesima diatriba tra favorevoli e contrari.
Inutile, repressivo e barbarico o insostituibile salvatore di vite umane? Ora da uno studio scientifico statunitense viene una provocazione - a favore dell'"elettro" - che merita di essere conosciuta. Proprio nei giorni in cui in Italia la circolare del ministro della Sanità Rosy Bindi, a favore di questa pratica, sta suscitando tante polemiche, nel mondo sia politico che scientifico. Per il profano che non si accontenta di suggestioni emotive, è difficile districarsi tra le diverse posizioni e sfuggire alle evocazioni di tanto cinema e tanta letteratura. Lasciamo dunque da parte per un momento il ricordo delle immagini di "Qualcuno volò sul nido del cuculo", (che sarebbe un po' come tentare di formarsi un'opinione sulla chirurgia del trapianto di organi sulla base dei film di Frankestein), e vediamo anzitutto in cosa consiste oggi l'elettroshock. Il fondamento medico della terapia sta nella constatazione, che risale ai tempi di Ippocrate, che una convulsione di tipo epilettico ha effetti positivi sulla depressione. Nel corso dei secoli, le convulsioni sono state provocate con vari metodi, spesso estremamente violenti e pericolosi, fino a quando, nel 1938, due medici italiani, Ugo Cerletti e Lucio Bini, non ebbero l'idea di ricorrere all'elettricità. Come molte altre terapie psichiatriche, nella fase iniziale l'elettroshock è stato usato in maniera grossolana, francamente pericolosa e talora utilizzata più per controllare i pazienti scomodi che per ragioni effettivamente terapeutiche. Ma dai tempi di Cerletti e Bini, la metodologia dell'ECT (per usare l'acronimo inglese di "electroconvulsant therapy") si è evoluta e perfezionata ed oggi la pratica psichiatrica effettua quella che viene chiamata "terapia elettroconvulsivante unilaterale", così detta perché coinvolge solamente uno degli emisferi cerebrali. Niente sedie elettriche, legacci di cuoio e dosi elevate di elettricità somministrate quasi a casaccio. Oggi l'intervento viene eseguito con macchine computerizzate e programmate a seconda del paziente, in anestesia generale e con l'obbligatoria presenza di uno psichiatra e di un anestesista. Ed altrettanto obbligatorio, almeno in teoria, è il consenso del paziente o di chi ne fa le veci, che a termini di legge deve essere pienamente informato sul funzionamento della terapia e sui suoi effetti collaterali. Al paziente vengono applicate due piastrine metalliche all'esterno dell'emisfero non dominante del cervello (il destro, nella maggior parte dei casi), attraverso cui viene fatta passare una corrente dell'intensità di circa 0.9 Ampere (tanto per intenderci, per accendere una lampadina servono 2 Ampere). L'energia è di circa 24 joules e il voltaggio utilizzato (si tratta di corrente continua, come quella delle batterie) è di circa 100-110. La scossa dura circa 0.14 secondi, e la convulsione che ne segue va da 10 a 40 secondi. La seduta viene ripetuta due o tre volte a settimana per circa un mese, a seconda dei casi. Ma cosa fa la scossa elettrica? In pratica, riattiva di colpo i neurotrasmettitori, rialzando in particolare la noradrenalina, che nei depressi sarebbe estremamente carente. Equivale, insomma, ad una dose elevatissima di antidepressivi somministrata in un colpo solo, sostituendo l'intervento farmacologico che, in dosi equivalenti, sarebbe pericolosamente tossico. Una scossa rivivificante, dunque, che rimette in moto meccanismi cerebrali devastati dalla malattia. Da usare, e questo viene sottolineato in tutti i testi ufficiali, anche i più favorevoli, solo ed esclusivamente per i casi di emergenza. Nel 1985, i National Institutes of Health americani hanno dedicato al problema dell'elettroshock un'intera conferenza, emettendo alla fine una sentenza favorevole alla sua applicazione. Citando direttamente dal documento finale emesso dai NIH, "nessuno studio ha rilevato un'altra forma di terapia che si dimostri superiore all'Ect per la cura a breve termine delle depressioni gravi." L'unica terapia possibile, insomma, per i soggetti in condizioni acute, con evidenti intenzioni suicide, catatonia o mancata rispondenza alle cure farmacologiche. L'elettroshock permetterebbe dunque di recuperare un paziente a rischio di vita (oppure troppo anziano o debilitato per assumere farmaci) che potrà poi essere curato con antidepressivi e/o psicoterapia. I fautori dell'elettrochock sostengono infatti che non è possibile mettere sullo stesso piano un intervento di emergenza, di durata limitata, come l'Ect e una cura lunga e complessa come quella psicoterapica, inapplicabile nella maggioranza dei casi acuti. E per molti soggetti, aggiungono, la psicoterapia è comunque improponibile, perché prevede la volontà del paziente a sottoporvisi, e gli strumenti culturali ed anche finanziari per proseguirla e trarne giovamento. L'elettroshock uscirebbe quindi assolto e addirittura vincente nella letteratura medica più diffusa e recente. Ma non ne vanno per nulla sottovalutati gli effetti collaterali, che rimangono pesanti anche rispettando la metodologia prevista. I rischi di mortalità sono bassi (2,9 decessi su 10.000 secondo lo studio più pessimistico, 4,5 su 100.000 secondo il più favorevole) e vanno comunque confrontati con un rischio di suicidio che tocca una media del 15 per cento nei depressi gravi. Tuttavia, immediatamente dopo il risveglio, l'elettrochock provoca uno stato confusionale, in alcuni casi anche molto grave, ed una perdita di memoria che può coprire anche un arco di una decina di giorni. Secondo i Nih, inoltre, l'1 per cento circa dei pazienti sottoposti a ECT può soffrire di forme gravi di amnesia, anche se generalmente i problemi si risolvono entro sei-sette mesi dal trattamento. Una ricerca condotta a tre anni dalla terapia, però, ha rilevato in molti pazienti un complessivo peggioramento delle capacità di memorizzazione. Un po' salomonicamente, il panel di esperti dei National Health Institute (che comprendeva anche psichiatri decisamente contrari all'Ect), ha concluso la sua conferenza sottolineando che servono ancora altri studi sui meccanismi di base del funzionamento dell'elettrochock, raccomandando che la scelta della terapia venga effettuata solo dopo "una complessa considerazione di vantaggi e svantaggi a confronto con altre terapie" e ricordando che "per prevenire errori ed abusi è essenziale stabilire adeguati standard procedurali e di controllo dell'Ect". Sembra insomma di poterne concludere che se gli abusi e gli errori del passato (sperando che appartengano solo al passato) non possono essere utilizzati come argomenti a sfavore della terapia, quando si troverà un'alternativa efficace all'elettrochock tireremo tutti quanti un bel respiro di sollievo. Pazienti, psichiatri e pubblica opinione.
UNA TERAPIA DISCUSSA
In Italia 12 centri praticano la «scossa della discordia»
(edizione online di un quotidiano nazionale, 5 febbraio 2013)
I medici la chiamano "Terapia elettro convulsivante" (Tec), ma ai profani è più nota come "elettrochoc". Un nome sinistro, che evoca libri e film (come l’indimenticabile Qualcuno volò sul nido del cuculo). In pochi sanno però che questo trattamento è ancora applicato in molti paesi del mondo, Italia compresa. L’argomento è tabù, tanto che persino i laureandi in medicina spesso sono portati a credere che la Tec sia ormai un cimelio della storia della psichiatria. Non è così. In Gran Bretagna è regolarmente utilizzata in 160 centri psichiatrici, la Germania si "ferma" a 159. Negli Usa è somministrata a 100 mila persone l’anno. In Italia, secondo i dati resi noti dal ministro della Salute Renato Balduzzi durante un’audizione alla commissione Sanità del Senato, è praticata in 12 centri: 9 pubblici e 3 privati. Ma secondo uno studio dell’Università di Pavia, sono almeno 14 le strutture dotate di un macchinario per la terapia. A Cagliari l’hanno abbandonata due anni fa, a Pavia negli ultimi vent’anni sono stati trattati solo 4 casi. Ma altrove i numeri sono significativi. All’ospedale San Martino di Oristano, tra il 1999 e il 2009, sono stati trattati 199 pazienti, con 6 sedute a testa in media. A Montichiari nel 2009 sono state eseguite 557 applicazioni: 51 pazienti sono stati sottoposti a Tec in media 8 volte, mentre altri 16 hanno ricevuto altri trattamenti «di mantenimento» a distanza di 3-6 mesi, a seconda della ricomparsa dei sintomi psichiatrici. Nella clinica dell’Università di Pisa la Tec viene applicata a 80-90 pazienti l’anno. In tutto, in Italia nel triennio 2008-2010 sono stati eseguiti più di 1.400 elettrochoc, soprattutto su donne e over 40. I numeri tengono conto solo delle strutture pubbliche o convenzionate con il servizio sanitario. In base alla direttiva emessa nel ’99 dal ministro Bindi (ancor oggi l’unico riferimento normativo), sono le sole autorizzate a eseguire la Tec. Ma nei fatti non è così. Ci sono cliniche non accreditate che arrivano a praticarla sul 6 per cento dei ricoverati. Poco o nulla si sa, però, di cosa accada veramente tra le loro mura. Raccogliere informazioni è infatti difficile: l’indagine dell’Università di Pavia si scontrò con la diffidenza di diversi centri interpellati, timorosi che «un’attenzione particolare potesse creare problemi al lavoro clinico».
La comunità scientifica resta profondamente divisa. Ma in assenza di una legge che proibisca l’elettrochoc (nel 2000 fu inutilmente presentato un disegno di legge che prevedeva anche il carcere per chi lo avesse praticato), il problema è essenzialmente quello dei controlli, non sempre adeguati e rigorosi [...]Dopo 17 anni, la Tec è ancora avvolta da ombre e pregiudizi, in attesa che qualcuno faccia chiarezza una volta per tutte.